top of page
Immagine del redattoreFlavia Novelli

Versi migranti

Aggiornamento: 13 nov 2019



Non ti allarmare fratello mio, dimmi, non sono forse tuo fratello? Perché non chiedi notizie di me? È davvero così bello vivere da soli, se dimentichi tuo fratello al momento del bisogno? Tesfalidet Tesfom


Il pezzo di carta contenente questi versi è conservato all’hotspot di Pozzallo dentro un foglio plastificato etichettato con la lettera G e il numero 1, il codice usato per identificare il primo migrante sceso dalla nave Proactiva nello sbarco di 92 persone del 12 marzo 2018. Dalla nave, Tesfalidet è dovuto scendere portato in braccio dal medico dell’Usmaf perché troppo debole per camminare, ridotto pelle e ossa dopo la detenzione in Libia. Al suo arrivo in Italia pesava appena 30 kg e per tutti era “Segen”, un soprannome che nel piccolo villaggio eritreo di Mai Mine, da dove era partito, viene dato alle persone magre, alte e con il collo lungo da giraffa. Segen è morto poche ore dopo lo sbarco ed è allora che gli hanno trovato indosso, custoditi in un portafoglio senza soldi, i due fogli di carta utilizzati per scrivere le sue poesie.

Per qualche giorno la storia di Segen e dei suoi versi è rimbalzata sugli organi di stampa e sul web. La poesia è riuscita a strappare all’anonimato dei numeri un nome, un volto, una storia, delle parole, ha aiutato Segen a esprimere la sua sofferenza e noi (forse) a comprenderla.

Una storia che invita a riflettere, oltre che sul dramma umano dei migranti, sul ruolo che la poesia (e più in generale la letteratura tutta) può avere nel proporre un’alternativa a narrazioni spesso stereotipate, xenofobe e discriminanti dei fenomeni migratori. Rispetto alle parole a volte vuote e superficiali della cronaca, il linguaggio poetico può infatti riuscire a restituire pienezza e profondità a esperienze che nella loro tragicità travalicano il singolo dramma individuale e investono l’umanità tutta. La scrittura poetica diventa strumento espressivo in grado di comunicare l’inesprimibile. Questo, Segan deve averlo intuito, percepito, se nella sua traversata l’unica cosa che ha sentito il bisogno di portare con sé è stata la carta per esprimere le sue emozioni, la sua solitudine, la sua rabbia, il suo pianto, la speranza di essere ascoltato. Al lettore la scrittura poetica arriva in modo diretto, con la precisione e l’inarrestabilità di un proiettile che colpisce al cuore o di un pugno allo stomaco. Normalmente quando leggiamo, che si tratti di un testo di prosa o di un articolo giornalistico, attiviamo per prima cosa le funzioni cognitive che ci consentono di comprenderne il contenuto; successivamente proviamo o meno emozioni dettate da ciò che suscita in noi quel che abbiamo letto, dalle riflessioni che ci ha stimolato e dai vissuti esperienziali che ha rievocato. Con la poesia credo avvenga l’esatto contrario: immediatamente siamo investiti da un’emozione a partire dalla quale si attiva in seguito un processo di elaborazione e riflessione allo scopo di comprendere le ragioni per cui quelle parole, che possono lavorare nella mente per giorni, hanno prodotto un tale effetto su di noi. La forma poetica può quindi essere molto efficace nella narrazione dei fenomeni migratori, riuscendo, grazie all’empatia indotta dalle emozioni, a rompere gli argini del pensiero preconcetto o ideologico innalzati spesso come meccanismo di difesa verso ciò che spaventa perché non si conosce e non si comprende.

Esiste un’intera produzione letteraria nota come “scrittura migrante”. Stando alla banca dati Basili – istituita nel 1997 da Armando Gnisci, docente di Letteratura comparata all’Università di Roma La Sapienza – in Italia sono circa 600 gli autori migranti translingui e di nuova generazione. La conoscenza e valorizzazione di tale produzione letteraria potrebbe contribuire a mettere in discussione quella rappresentazione della migrazione dominata dalla dimensione emergenziale che è oggi la più diffusa nell’immaginario collettivo.

Non mancano, fortunatamente, progetti e iniziative che si muovono in questa direzione.

Ispirandosi alle parole di Izet Sarajlic, “Anche i versi sono contenti quando la gente si incontra”, il progetto Voci migranti, ideato e realizzato da Casa della poesia di Baronissi/Salerno e giunto alla terza edizione, offre a centinaia di studenti delle scuole superiori l’opportunità di incontrare poeti provenienti da varie parti del mondo e appartenenti a tipologie particolari: poeti che emigrano per vari motivi o che sono figli/nipoti di emigrati, poeti che incontrano e “soccorrono” gli emigrati, poeti che perdono la patria o la lingua. L’obiettivo del progetto è di sensibilizzare i giovani coinvolti a un dialogo con le culture altre e di stimolare, attraverso la condivisione di esperienze ed emozioni, la capacità di assumere il punto di vista degli altri. Voci migranti è un progetto multimediale e multidisciplinare, articolato in una serie di reading seguiti dal confronto con gli autori, preceduti da un percorso propedeutico di avvicinamento costituito da incontri di studenti e docenti con gli organizzatori del progetto, che hanno messo a disposizione materiali didattici multimediali (testi, interviste, link a siti – Casadellapoesia.orgPotlatch.it – dove è possibile trovare materiali audiovisivi, approfondimenti, ecc.). Gli incontri si svolgono nelle sedi degli istituti coinvolti o in luoghi pubblici e sono sempre aperti alla partecipazione di chiunque sia interessato, per favorire un dialogo con le fasce giovanili e con la popolazione cittadina.



A parlare di migrazione devono essere gli stessi migranti: parte da questa idea semplice, nell’aprile 2019, il progetto editoriale “The Black Post- L’informazione nero su bianco“, il primo giornale online redatto esclusivamente da ragazzi e ragazze immigrati, che possono però contare, nel caso di difficoltà a scrivere in italiano, sull’aiuto di giornalisti, professori e studenti che collaborano al progetto; una collaborazione che è già un esempio di inclusione interno alla redazione. Lo “straniero” da oggetto dell’informazione diventa quindi soggetto attivo della comunicazione, perché l’obiettivo dichiarato dai promotori “non è quello di parlare di loro, ma di fare in modo che siano loro stessi a parlare e descrivere la vita e il mondo che li circonda”, restituendo in questo modo la propria soggettività a chi la vede spesso negata, se non bandita. “Nero su bianco” – è spiegato sul portale – “significa nitidezza, precisione. Ma può significare anche rovesciare il punto di vista, ribaltare la prospettiva, cambiare lo sguardo con cui leggere la realtà: leggerla e soprattutto scriverla”. Ed è attraverso la poesia – a cui è dedicata una specifica sezione del portale – che spesso i redattori di Black Post scelgono di raccontarci la loro esperienza di migrazione.

Sempre sulla rete, è stato da poco lanciato il progetto “Words4link – scritture migranti per l’integrazione” che si prefigge di divulgare e promuovere i testi e le storie degli scrittori di origine immigrata, nella convinzione che “la scrittura migrante possa contribuire a innescare un cambiamento nella rappresentazione dei migranti nell'immaginario collettivo, affinché si creino a livello sociale e dell’opinione pubblica condizioni sempre più favorevoli alla convivenza con cittadini dei Paesi terzi, superando le percezioni negative e i pregiudizi”. Il progetto Words4link – che vede come capofila la cooperativa sociale Lai-momo e come partner il Centro Studi e Ricerche IDOS e l’Associazione Culturale Mediterraneo (ACM) – prevede la creazione di una rete di soggetti ed enti attivi nel settore, l’organizzazione di incontri tra autori, editori, giornalisti e pubblico, lo scambio di buone pratiche, una campagna di comunicazione nazionale ed europea sulle scritture migranti e una mappatura (disponibile sulla piattaforma interattiva del progetto) degli attori chiave: Autori/rici provenienti da Paesi non comunitari o nati in Italia, ma con origini straniere, che utilizzano la lingua italiana per esprimersi, tanto in ambito letterario (prosa e poesia) quanto giornalistico o saggistico, ma anche case editrici, associazioni, iniziative di ricerca, librerie, media che lavorano per la diffusione e la promozione delle scritture migranti.

Nell’attesa di poter attingere dalla biblioteca virtuale di Words4link a una più vasta produzione poetica migrante, qualche consiglio di lettura:



AA.VV., Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano, Le Lettere, Firenze 2006 L’antologia raccoglie le opere di venti poeti provenienti da diversi Paesi del mondo, accomunati dalla scelta di utilizzare la lingua italiana come strumento espressivo. Seguono le sezioni dedicate ai singoli autori, in cui i versi sono introdotti da una scheda bio-bibliografica e da una dichiarazione di poetica. Nel testo emergono molteplici temi e atteggiamenti riguardo la funzione della letteratura nella costruzione dell’identità culturale e la ricerca di una nuova patria e una nuova cittadinanza attraverso il tradimento delle radici e l’adozione della lingua italiana.


Tra i poeti presenti nell’antologia, ricordiamo: Pap Abdoulaye Khouma, scrittore senegalese naturalizzato italiano. Immigrato in Italia nel 1984, si stabilisce a Milano, dove si occupa di cultura e letteratura. Iscritto all’Albo dei giornalisti stranieri dal 1994 è direttore di El Ghibli e fondatore e direttore responsabile di Assaman, una rivista online di informazione italo-africana. È inoltre presidente di giuria del Premio Internazionale di Poesia Léopold Sédar Senghor.

Ubax Cristina Ali Farah nata a Verona nel 1973 da padre somalo e da madre italiana. È vissuta a Mogadiscio (Somalia) dal 1976 al 1991, quando è stata costretta a fuggire a causa della guerra civile scoppiata nel paese. Dal 1997 vive stabilmente a Roma dove si è laureata in Lettere presso l’Università “La Sapienza” e si occupa di educazione interculturale e della raccolta di storie orali di donne migranti residenti a Roma. Collabora, inoltre, con numerose riviste e testate come Repubblica, Internazionale, Giudizio universale. In Italia i suoi racconti e poesie sono stati pubblicati in diverse antologie e riviste. Nella primavera 2007 è uscito Madre piccola, il suo primo romanzo, edito da Frassinelli.


AAVV, “Sotto il cielo di Lampedusa”, Rayuela, 2014 con la prefazione di Erri de Luca Sulle rive di Lampedusa Sono sdraiati i resti delle nostre coscienze gonfie Le rive di Lampedusa Sono il viso sfigurato, gonfio e mutilato della nostra umanità Oggi!  (Gassid Mohammed)

L’antologia “Sotto il cielo di Lampedusa” raccoglie 85 poesie scritte da ben 69 poeti, italiani e stranieri, donne e uomini, all’indomani della strage marittima del 3 ottobre 2013 a largo di Lampedusa, dove annegarono trecento migranti, molti di origine eritrea. Una raccolta di voci che si esprimono in arabo, francese, inglese, dialetto romagnolo e dialetti siciliani/lampedusani per esprimere il proprio dolore e la propria indignazione. Il progetto nasce per volontà del gruppo di “1oomila poeti per il cambiamento di Bologna” (100 TPC) e della loro rappresentante bolognese Pina Piccolo. Il gruppo fa parte dell’omonimo 100 thousand poets for change, creato da  Michael Rothenberg e Terri Carrion, i due californiani che, convinti che la poesia possa avere un valore politico nel 2012 rivolsero a poeti di tutto il mondo un appello a unirsi e comporre versi su temi come i diritti umani, la compassione, l’ambientalismo. L’ associazione, in espansione anche in Italia, anima ogni anno in oltre cento nazioni diverse, un reading simultaneo intercontinentale. Da quel momento i 100TPC di Bologna si sono mobilitati per raccogliere poesie di eritrei, somali, europei, che volessero dire qualcosa su questa strage o sull’esperienza dell’ immigrazione. Arrivano componimenti da tutto il mondo e, grazie al web, l’iniziativa acquista risonanza: agli sforzi di 100 Thousand Poets for Change si uniscono quelli di Carte Sensibili, Versante ripido e Il Golem Femmina. Nasce così un e-book, ospitato sul sito di GLOB011. Due settimane dopo, arriva la proposta di pubblicazione cartacea da parte di Rayuela Edizioni. Il 10% dei proventi delle vendite dell’antologia sarà devoluto all’organizzazione internazionale “Eritrean Youth Solidarity for National Salvation”, organizzazione di giovani eritrei che si battono contro la dittatura vigente in quel paese. A sua volta l’organizzazione ha deciso di destinare quei fondi all’acquisto di altri libri per formare una piccola biblioteca da mettere a disposizione dei giovani provenienti dal corno d’Africa e di altri profughi.

Cara mamma, sono partita contro il tuo volere/ ti ho lasciata in lacrime, senza riuscire ad asciugare le tue lacrime questa volta ti lascio per sempre. Ho intrapreso un cammino difficile e tortuoso/ Ho incontrato molteplici difficoltà. Aimè sono stata depredata, violentata e torturata. Alle cui urla strazianti ti hanno obbligata ad assistere e viverle con me via telefono/ affinché impotente/ desolata e distrutta vendessi tutti i tuoi averi elemosinassi anche per strada. Tutto per riscattare la mia vita perché possa essere liberata e successivamente rivenduta ad altri trafficanti della morte. (Lacrima sul tuo volto, Bietelihem Berhane, Eritrea)

A casa ci voglio tornare, ma casa mia è la bocca di uno squalo/ casa mia è la canna di un fucile/ e a nessuno verrebbe di lasciare casa sua/ a meno che non sia stata lei a inseguirlo fino all’ultima sponda a meno che casa tua non ti abbia detto/ affretta il passo/ lasciati stare i tuoi stracci/ striscia nel deserto/ sguazza negli oceani/annega/ salvati/ fatti fame chiedi l’elemosina dimentica la tua dignità/ la tua sopravvivenza è più importante. (Casa Warsan Shire – Trad. di Pina Piccolo)


Gëzim Hajdari, Delta del tuo fiume, Ensemble, 2015 «Vado via Europa, vecchia puttana viziata… Addio Europa di muri, impronte delle dita e tombe d’acqua» «Incendierò le vecchie lingue arrugginite, / mi scrollerò di dosso identità, cittadinanze e patrie matrigne»

Il poeta albanese Hajdari ci ricorda che «L’arte, e la poesia in particolare, ci rendono capaci di oltrepassare i confini. Non è un tradimento ma un arricchimento. È il punto di partenza per un dialogo vero che abbatta tutti gli steccati nazionali e territoriali. Poiché tutti siamo migranti, lo siamo stati e la storia lo ricorda continuamente. Noi europei in particolare siamo nati da mescolanze continue di popoli e culture. Il nostro sangue è impuro e, per questo, più ricco».

Nato nel 1957 ad Hajdarai, un villaggio nella provincia di Lushnje (Albania), a 19 anni scrive la prima raccolta di poesie: Il Diario del bosco, che non viene accettato dall’editoria di regime, mentre in Italia verrà pubblicato nel 2001 col titolo Erbamara. La silloge che nel 2000 verrà pubblicata nel nostro paese come Antologia della pioggia esce in Albania nel 1990 dopo cinque anni di censura, in versione non integrale. Nel 1992 Hajdari fugge dall’Albania, dopo essere stato tra i fondatori del Partito Repubblicano e di quello Democratico (schierati all’opposizione del regime comunista) e dopo aver subito reiterate minacce ed essere scampato a una sparatoria nella sede del Partito Repubblicano. Giunto in Italia, non ottiene l’asilo politico poiché l’Albania è annoverata tra i “paesi democratici”. L’anno successivo viene pubblicato, presso una piccola casa editrice di Frosinone, il suo primo libro di poesie in italiano con testo a fronte albanese, Ombra di cane, che segna l’inizio una vasta produzione poetica e dei primi importanti riconoscimenti, fra cui il Premio Montale.



Soumaila Diawara, Sogni, Youcanprint, 2018 Soumaila Diawara, La nostra civiltà, Youcanprint, 2018 Soumaila Diawara nasce nel 1988 a Bamako, Mali, e all’età di tre anni, per motivi familiari, va a vivere con la nonna, attivista del primo movimento femminista del Mali. Durante il periodo universitario è impegnato in politica e nei movimenti studenteschi. Laureatosi in Scienze Giuridiche con una specializzazione in Diritto Privato Internazionale, abbraccia completamente la politica, entrando nel partito di opposizione Solidarité Africaine pour la Démocratie et l’Indépendance (SADI), ricoprendo l’incarico di guida del movimento giovanile. In questo periodo viaggia in vari paesi: Africa, America Latina, Europa e Canada. Diventa responsabile della comunicazione del suo partito, in collaborazione con la Sinistra Maliana e con l’Organizzazione della Sinistra Africana (ALNEF). Accusato ingiustamente, insieme ad altri, di un’aggressione ai danni del Presidente dell’Assemblea Legislativa, nel 2012 è costretto ad abbandonare il Mali. Nel 2014 parte dalla Libia (“In Libia, stavo per comprare il biglietto per la Svezia, per la quale ero riuscito ad ottenere un visto, ma sono stato arrestato e incarcerato per dieci giorni, perdendo tutti i miei documenti”) a bordo di un gommone e dopo il soccorso della Marina italiana approda in Sicilia e ottiene la protezione internazionale come rifugiato politico. Pubblica in maniera indipendente Sogni di un uomo, cui seguirà un secondo libro di poesie, La nostra civiltà.


Ndjock Ngana, La nostra Africa, Vis 2017 L’Africa – afferma il poeta Ndjock Ngana in un’intervista – quando non è immigrazione, sicurezza o minaccia islamica, ma è poesia, arte e cultura diventa una realtà marginale, invisibile. Una realtà che non interessa a nessuno, tranne a chi, nella vita, si è trovato a conoscerla di persona, come capita ad esempio ai missionari cristiani. Per questo i padri missionari sono tra i pochi che ne parlano senza riferirsi a migranti e sbarchi”.

Ngana, scrittore e mediatore culturale, nato in Camerun nel 1952, discende dall’etnia Basaa, che significa ‘custode delle tradizioni’. E nelle sue poesie emerge il profondo senso di identità trasmesso dagli anziani, “gli scrigni della parole”.

Nel 1973 ha lasciato il suo paese per trasferirsi in Italia. Attualmente vive a Roma. Ha seguito la strada dell’impegno politico, sociale, culturale per la conservazione delle culture africane e per la diffusione delle altre culture. Infatti, nell’89 ha fondato l’associazione Baobab con intellettuali africani e latinoamericani per l’integrazione degli immigrati, per la convivenza tra culture, religioni e l’ associazione Kel ‘Lam (“un bel giorno” in lingua basaa). Ma Ndjock Ngana è anche e soprattutto poeta. In Italia ha pubblicato le raccolte di poesie “Foglie vive calpestate” ( 1989, Ucsei-Regione Lazio) e “Nhindo-Nero” (Anterem, 1995). E’ autore inoltre, di “Il segreto della capanna. Poema. Djimb li lapga. Hiembi” (Lilith Edizioni, 1998), di una raccolta di poesie e racconti “Maeba. Dialoghi con mia figlia” (Ass. Kel ‘Lam, 2005), primo libro della collana “Integrazioni interculturali” nata per iniziativa di Kel ‘Lam per rafforzare l’opera di sensibilizzazione portata avanti da anni nelle scuole. Ha pubblicato poi “Stress 1: Quel maledetto pezzo di carta” (Kel ‘Lam, 2006), che parla di storie di normale disavventura di un immigrato in Italia, raccontate in chiave tragicomica. Quest’ultima sua raccolta di poesie, “La nostra Africa”, è stata pubblicata in Etiopia grazie al Volontariato internazionale per lo sviluppo (Vis), l’ong italiana che ha creato ad Addis Abeba la prima tipografia con corsi di grafica e stampa. La formazione di personale locale e la fornitura di strumenti tecnici sono l’obiettivo specifico di questo progetto che vuole contribuire alla realizzazione personale e professionale di ragazzi ai quali, altrimenti, non sarebbero offerte adeguate opportunità e offrire quindi alternative alla migrazione irregolare attraverso formazione professionale e opportunità di lavoro.


Chandra Livia Candiani con Andrea Cirolla (a cura di), Ma dove sono le parole? Le poesie scritte dai bambini nelle periferie multietniche di Milano nei seminari di una maestra speciale. Effigie, Milano, 2015 Voci timide, aggressive, spaventate, tormentate, sono le “voci poetiche” delle bambine e dei bambini migranti “spogli di diritto all’infanzia, spogli dei diritti elementari ad un luogo, una terra sotto ai piedi, una lingua comune, una casa accogliente, un prossimo”. A pubblicarle nel libro “Ma dove sono le parole?”, la poetessa Chandra Livia Candiani che, insieme ad Andrea Cirolla, ha raccolto le poesie scritte dai bambini stranieri con un vissuto più o meno diretto di immigrazione, mettendosi in ascolto delle loro storie, grazie a un laboratorio tenuto nelle scuole elementari di periferia. Queste poesie mostrano alcuni frammenti di vicende esistenziali, portando alla luce ciò che di solito nelle immagini degli sbarchi rimane in un cono d’ombra: quel che succede ai soggetti più fragili delle migrazioni, le esperienze che attraversano, l’impatto con un continente nuovo, il bisogno di amicizia e solidarietà.

L’amicizia la senti quando dai la mano (Maryna, nove anni)

I miei familiari sognano ad occhi aperti ma pagano a occhi chiusi. A noi manca solo un tocco di pazienza, un tocco di pazienza per favore. (Joy, nove anni)

Quello che resta nel mio paese è bello quello che resta ancora c’è quello che resta profumo quello che resta graffia la morte quello che resta profuma tutto (Kiro, dieci anni)

Il silensio Paura volio giocare ma o paura, volio dire qualcosa ma o paura, volio cantare ma ho paura, tuti mi prendono in giro e o paura, o paura di tuto e sono da solo. Silensio. Il silensio mi pasava tra le vene sembra infinito il silensio. (Marius, nove anni)

L’addio è un pane quotidiano che si sta spezzando. L’addio è una bellezza da abbandonare per saperla capire. L’addio è una casa per ripararsi dai lupi. L’addio è profondità da scalare, ma bisogna aspettare per arrivarci. L’addio è un fuoco che ti riscalda il cuore. (Miriam, nove anni)


Articolo pubblicato su Librinews

43 visualizzazioni0 commenti

Comments


bottom of page