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Immagine del redattoreFlavia Novelli

Un'altra vita


Photo by Hanna Postova on Unsplash



La sveglia programmata alle 7.00 era l’unica cosa che, ogni mattina, le ricordava che era ancora un essere sociale. Le pesava abbandonare il tepore del suo letto in quel silenzio irreale che aveva avvolto la città, ma almeno non avrebbe dovuto affrontare il traffico cittadino, sprecare due ore della propria vita per andare e tornare dal lavoro. Non c’era più bisogno neanche di vestirsi e truccarsi. Le bastava prepararsi un caffè e accendere il pc. Il resto del mondo era connesso, come lei, senza la necessità di indossare la consueta maschera. Era sufficiente disattivare la telecamera e si poteva partecipare alle riunioni più formali con indosso il pigiama e con il volto struccato, senza sentirsi imprigionata in un reggiseno stretto e in un paio di scarpe scomode. Ogni abitudine convenzionale era stata abbandonata con sottile piacere. La routine quotidiana aveva lasciato il posto alla personale anarchia domestica, alla libera gestione del proprio corpo e del proprio tempo. I tempi lavorativi, è vero, si erano allungati ed espansi, avevano colonizzato ogni spazio giornaliero, ma in fondo anche il giorno sembrava più elastico e gestibile: fra una riunione e l’altra c’era il tempo di caricare una lavatrice o di stendere il bucato e durante la pausa pranzo si poteva mangiare insieme ai propri figli. Il solo fatto di essere fisicamente presente in casa la faceva sentire un genitore migliore. Non doveva più provare quei terribili sensi di colpa che l’affliggevano quando faceva tardi in ufficio e ogni trillo del telefono suonava come un’accusa: «Mamma quando torni?», «Mamma fra quanto arrivi?». Ora poteva lavorare serenamente anche fuori orario perché ai suoi figli bastava averla lì in casa, a portata d’abbraccio e di bacio. E poi c’era il silenzio, la quiete che la città non le aveva mai concesso. Poteva trascorrere le giornate lavorando in balcone senza che il frastuono delle auto e dei clacson la facesse impazzire. Poteva, nel silenzio ovattato, incrociare lo sguardo di altri come lei affacciati dai palazzi di fronte e scambiare un sorriso di condivisione. C’era apprensione, certo, e preoccupazione, ma in fondo una lieve gratitudine accompagnava quella reclusione forzata. Il ritorno alla normalità era qualcosa che al tempo stesso desiderava e temeva. Era consapevole che quel che stava vivendo e sperimentando aveva ormai modificato per sempre il suo concetto di normalità, la sua percezione di vita quotidiana. Era possibile vivere più lentamente, tranquillamente. La sola idea di tornare ai vecchi ritmi frenetici e stressanti le trasmetteva un senso di stanchezza e frustrazione. Forse, la pandemia le aveva concesso un’altra chance, le aveva acceso un’illuminazione: un’altra vita era possibile.


Pubblicato il 19 ottobre 2021 su Il Clan delle Femmine


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