Quel mattino, per la prima volta dopo molto tempo, aveva un obiettivo in testa e ciò lo fece sentire sorprendentemente vivo. Pare che i vicini lo sentirono addirittura fischiettare.
Si lavò e vestì con cura, fece persino la barba e un’abbondante colazione. Poi sistemò la poltrona più vicina al vecchio orologio a pendolo e si sedette a fissarlo nell’attesa impaziente che le lancette gli indicassero l’orario preciso in cui aveva calcolato di dover uscire: dieci minuti prima dell’apertura dei negozi, quello in tempo che - sempre secondo i suoi calcoli - gli ci voleva per raggiungere a piedi la cartolibreria.
Rimase così, immobile, per un’interminabile ora in cui nella sua mente si affollarono pensieri e - se ne stupì lui stesso - progetti.
Finalmente l’orologio segnò le nove e cinquanta e Sebastiano scattò in piedi come un militare sull’attenti.
Pare avesse anche un insolito sorriso sulle labbra, quando lo videro uscire dal portone.
La proprietaria della cartolibreria dice che girovagò a lungo per il negozio e ricorda che si stupì non poco quando lo vide presentarsi alla cassa con ventuno quadernetti tutti uguali: copertina nera con una piccola etichetta bianca solcata da due righe sottili. La signora Elsa pensò - e non sbagliava - che li avesse scelti perché ricordavano quelli che un tempo si usavano a scuola. Ma perché ventuno? Fu tentata di chiederglielo, ma quell’anziano signore non aveva l’aria di essere uno a cui andasse di fare conversazione e tantomeno di dare spiegazioni; sembrava piuttosto avere molta fretta.
Al ritorno, Sebastiano impiegò sette minuti esatti, il suo fedele orologio da taschino era ancora affidabile. Evidentemente le sue gambe, dopo tanta inattività, si erano sgranchite grazie a quell’inusuale uscita mattutina, oppure era la frenesia di portare a casa i suoi quaderni nuovi ad avergli accelerato il passo.
Fatto sta che, appena varcata la soglia dell’abitazione, il nostro Sebastiano, senza neanche togliersi il cappotto, si mise a vagare con lo sguardo tra librerie, mensole, cassettiere e tavolinetti, in cerca della collocazione più consona ai suoi preziosi quaderni.
Non fu impresa facile, ma infine la scelta ricadde su un secrétaire georgiano in mogano dei primi dell’Ottocento, all’interno del quale ripose i quaderni, dopo averne vergato le etichette con le ventuno lettere dell’alfabeto.
Solo a quel punto, soddisfatto, si sfilò il cappotto, si cambiò riponendo con cura gli abiti nell’armadio e indossò la calda vestaglia da camera, ultimo dono della sua adorata moglie.
Non aveva appetito ma si forzò ugualmente di riscaldare un paio di fettine d’arrosto che la signora Gina gli aveva lasciato in cucina mentre lui era fuori.
Ne mangiò solo una e poi si distese, come era consueto fare, sul letto. Ma il pensiero di quei quaderni non gli dava tregua. Si alzò in preda a una nuova inquietudine. «Sono solo un vecchio rimbambito», si ripeteva fissando la sua immagine sbiadita nello specchio della camera in penombra, «Che cosa mi è saltato in mente di fare adesso, con quei quaderni?».
Mise sul gas un pentolino d’acqua per il tè e, nell’attesa che bollisse, scelse tra gli scaffali della libreria un nuovo libro cui dedicare il tempo restante di quella strana giornata.
E fu così che mentre scorreva le pagine ingiallite seduto in poltrona, con la tazza del tè posata sul tavolino alla sua destra, lo sguardo gli si posò sulla prima parola che avrebbe avuto l’onore di essere accolta in uno dei suoi nuovi quaderni, nello specifico, quello con l’etichetta riportante la lettera M.
Sebastiano fu pervaso da un rinnovato entusiasmo. Si alzò eccitato dalla poltrona, lasciando scivolare sul pavimento il plaid con cui era solito coprirsi le gambe, aprì lo scrittoio ed estrasse dalla pila l’undicesimo quaderno. Con la penna stilografica regalatagli dai suoi studenti l’ultimo anno di insegnamento, vergò sulla prima pagina la parola MISONEISTA. Poi prese il dizionario e iniziò a trascrivere: Misoneista: Sostantivo maschile/ aggettivo femminile. Chi odia le novità, i cambiamenti e preferisce vivere seguendo soltanto le proprie abitudini. Un tipico atteggiamento misoneista.
Ridacchiò fra sé, pensando che la prima parola palesatagli fosse così aderente alla sua persona.
Quella notte, per la prima volta dopo tanto tempo, riuscì a dormire un sonno tranquillo e sereno.
Il mattino dopo e tutti quelli che seguirono lo trovarono lucido e scattante. La sua mente assopita si era finalmente risvegliata e anche l’immagine che lo specchio della camera gli rimandava non era più così sbiadita.
Le sue giornate erano scandite da rituali e occupazioni puntuali: il caricamento della moka, la fetta biscottata con il miele, le abluzioni mattutine, la vestaglia, la poltrona, il libro, il pranzo preparato da Gina, il riposo pomeridiano, il tè, di nuovo la poltrona e il libro, la cena, le abluzioni serali, il sonno. Saremmo portati a dire che fossero tutte uguali, ma per Sebastiano no, per lui ogni giorno era diverso, ognuno gli regalava un viaggio e un’emozione diversa. A volte, è vero, passavano anche due o tre giorni senza che una nuova parola gli facesse visita ma poi, eccola scintillare all’improvviso sulla pagina, bella, affascinante, misteriosa. Allora, emozionato, Sebastiano raggiungeva lo scrittoio, cercava il quaderno con la giusta lettera e scriveva. A, ABBRIVO (o abbrìvio) s. m. [der. di abbrivare]: Impulso iniziale con cui si dà moto o si aumenta gradualmente la velocità di una nave, di un’imbarcazione, e per estens. di altro veicolo; anche la quantità di moto che la nave o il veicolo ha nel momento in cui cessa l’azione dei mezzi propulsivi. In senso fig., riferito a persona, prendere l’a., prendere l’aire, iniziare con slancio un’azione (e spec. a parlare, a scrivere, a operare), in modo da proseguire per la forza stessa dell’impeto iniziale: Perpetua, preso l’abbrivo nel parlare di matrimoni, non la finiva più (Manzoni).
Qual era stato l’abbrivo, l’impulso iniziale, che gli aveva dato lo slancio per intraprendere quella nuova attività quotidiana di ricerca e collezione di parole desuete da salvare dall’oblio a cui la lingua pigra e scarna della modernità le stava condannando?
Sebastiano ripensò alla sua vita, agli anni investiti nel cercare di trasmettere ai suoi studenti di liceo la passione per la scoperta e l’approfondimento, al lungo e incondizionato amore per sua moglie e alla comune passione per i libri, accolti in casa e curati come figli, come i figli che la vita non aveva concesso loro.
Da quando sua moglie se l’era portata via la malattia, non era più uscito di casa, non leggeva più, non viveva, aspettava solo di raggiungerla.
Poi una notte, una di quelle solite notti insonni che ormai lo consumavano, gli era balenata nella mente quella strana idea. Forse era stata sua moglie Clelia a sussurrargliela all’orecchio, chissà.
Fatto sta che la mattina dopo, quell’idea fu l’abbrivo che trasferì alla sua mente e alle sue gambe l’energia per superare l’inerzia, uscire di casa, comprare i quaderni e intraprendere la sua nuova attività di collezionista di parole.
I vicini affermano che, dopo quella volta, non lo videro più mettere il naso fuori di casa.
La signora Gina, che ogni mattina entrava con il duplicato delle chiavi per lasciargli da mangiare e dare una rassettata, dice che il professore a malapena le faceva un cenno distratto di saluto con la testa, assorto com’era nei suoi libri. Finché un giorno, dopo svariati mesi di questa inalterata routine, Gina se lo trovò ad attenderla in piedi, davanti alla porta, con il portafoglio in mano. «Signora Gina, mi faccia una cortesia, mi vada a comprare un paio di risme di carta, sia gentile», così le disse e così la signora Gina fece, senza aspettarsi di ricevere spiegazioni.
Quella notte Sebastiano aveva ricevuto un’altra epifania («altra parola da trascrivere», appuntò nella sua mente): non poteva limitarsi a collezionare parole e a conservarle chiuse dentro lo scrittoio. «Le parole sono di tutti, devono volare. Volare, sì proprio volare» ripetè, e un’immagine gli si proiettò davanti.
Il professore si chiuse nello studio, posò le due risme di carta, i ventuno quaderni, la penna stilografica e un paio di forbici sull’ampia scrivania e si mise al lavoro.
Con pazienza certosina, ogni giorno ininterrottamente per ore ed ore, ritagliava piccoli rettangoli di carta su ognuno dei quali ricopiava dai quaderni una parola con la sua definizione, poi cominciava a piegarli come aveva imparato a fare da bambino, ottenendo così tanti perfetti aeroplanini.
La finestra dello studio affacciava sulla via del liceo in cui aveva insegnato per gran parte della propria vita e tutti i giorni, alle 14:15, una schiera di studenti solcava il cancello dell’edificio scolastico e rumorosamente defluiva proprio sotto quella finestra del terzo piano di un’elegante palazzina dei primi del Novecento.
Quel giorno Sebastiano era lì, affacciato, in trepidante attesa.
Come iniziarono ad apparirgli dall’alto le prime teste e i primi zaini, mise mano alla cesta di vimini in cui aveva riposto gli aeroplanini e cominciò a lanciarli dalla finestra.
Una pioggia di parole si abbatté sugli stupiti passanti.
Il professore, nascostosi dietro la tenda leggera, osservava con curiosità e apprensione la scena.
Poteva scorgere le facce interrogative rivolte verso l’alto, udire le risate, il chiacchiericcio, «Ma che succede?», «Cosa sono questi cosi?», «Chi li ha lanciati?», sentiva ripetere. Poi qualcuno cominciò a leggere ad alta voce: «Aliare: Agitare, battere lievemente le ali in volo; aleggiare; girare intorno», «Panglossiano: Esageratamente ottimista, idilliaco, che riconduce tutto necessariamente a un disegno positivo», «Dattilettico: Persona che ha una tendenza non volontaria a colpire i mobili con le dita dei piedi», «Rubesto: Robusto, vigoroso, selvaggio, impetuoso; duro, severo, brusco».
Qualcuno, dopo aver letto il biglietto, lo ributtava a terra, qualcun altro lo riponeva nella tasca dei jeans o dentro lo zaino.
La scena si ripetè puntuale, ogni giorno per settimane, tanto che nel quartiere si era sparsa la voce e tutti si chiedevano chi fosse l’artefice di quella pioggia di parole e perché lo facesse. Chi diceva fosse opera di un povero pazzo, chi si dichiarava convinto che si trattasse di una campagna pubblicitaria.
Chi aveva capito che l’autore era il professore del terzo piano taceva e manteneva il segreto, rispettando la sua nota riservatezza.
Dopo circa un mese anche il TG Regionale realizzò un servizio intervistando gli studenti e le studentesse destinatari di quell’insolito e anonimo dono dal cielo.
Se Sebastiano avesse avuto l’abitudine di guardare la televisione avrebbe provato soddisfazione nell’ascoltare quelle interviste. Quasi tutti dicevano che, dopo l’iniziale stupore e scetticismo, avevano iniziato ad attendere con ansia quell’appuntamento quotidiano, a conservare i biglietti, a scambiarseli, in caso di doppioni, come con le figurine. Ma soprattutto, avevano iniziato a usare quelle parole sconosciute. All’inizio solo per gioco, prendendosi un po’ in giro l’uno con l’altro: «Sei un allocco», «E tu un filibustiere». Poi, senza neanche accorgersene, le cominciarono a inserire nel linguaggio quotidiano e nei temi in classe, con grande stupore dei professori.
Si misero persino a gareggiare su chi ne scovava di nuove e di più strane.
Fu Gina a riferire al professore quanto raccontato dal TG e giura di aver scorto nello sguardo dell’anziano vedovo un luccichio di commozione.
La mattina dopo, quando Gina entrò in casa, con il contenitore del pranzo, lo trovò come sempre in poltrona. Questa volta volta però non riuscì a scorgere alcun lieve cenno del capo in segno di saluto. «Buongiorno professore» ripetè, alzando il volume della voce, ma non ottenne risposta.
Si avvicinò alla poltrona, la testa era reclinata e gli occhi chiusi, il braccio destro abbandonato verso il pavimento su cui giaceva la penna stilografica.
Sul grembo il ventesimo quaderno aperto sull’ultima pagina contenente una sola parola, scritta in stampatello, ma senza definizione: VITA.
Pubblicato il 15 aprile 2020 sul Notiziario culturale di Passaggi Festival
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