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  • Immagine del redattoreFlavia Novelli

Quel giorno in bicicletta

Aggiornamento: 1 mar 2020

Avevo dodici anni, forse tredici, e il corpo acerbo da bambina. Era estate e, come tutte le estati, ero in Toscana con i miei. Tappa fissa e obbligata, prima di procedere per il Friuli. A Montevarchi, provincia di Arezzo, ospiti di una anziana coppia di amici di famiglia. Era estate, dicevamo, e in quel di Montevarchi non è che ci fossero molte alternative alla noia per una dodicenne. Io ne avevo individuate essenzialmente due: arrampicarmi su un grande albero della villa comunale di fronte alla casa che ci ospitava e da lì, dall’alto e non vista, osservare la gente, confidando all’amico albero i miei più segreti pensieri; e, la seconda alternativa, prendere in prestito la bicicletta del padrone di casa e girare in lungo e in largo per la cittadina. Quel giorno, non so come, mi allungai verso la campagna che costeggiava l’Arno. Mi sentivo libera e felice, con i miei jeans verde acqua e la polo rosa. Ma soprattutto con la permanente ai capelli che mi ero fatto quel giorno per la prima volta in vita mia.


Il sole stava quasi per tramontare ed io ero sulla strada del ritorno. Non proprio una strada, in realtà, piuttosto un sentiero sterrato in mezzo alla campagna Non c’era anima viva, ma io, con la mia permanete appena fatta, con i capelli lunghi, morbidi e ricci che profumavano nel vento che tagliavo con la velocità della mia pedalata, non avevo paura di nulla. Ripeto, mi sentivo libera e felice. Fino a quando il rumore stonato della marmitta di un “Sì” non spezzò l’incanto. A bordo due ragazzi, poco più grandi di me, credo. Mi si affiancarono, rallentarono, proseguirono e poi tornarono indietro. Mi dicevano cose che non ricordo, che cercavo di non ascoltare, continuando a pedalare con lo sguardo fisso davanti a me, impegnata a calcolare quanta strada mancasse per arrivare. Solo una frase ricordo: Quanto vuoi? E per anni mi sono continuata a chiedere come avessero potuto scambiare una ragazzina con un paio di pantaloni verde acqua e una maglietta rosa su un corpo acerbo, per una prostituta. Sono arrivata anche a pensare che fosse per via della permanente, e mi sono sentita in colpa per averla fatta. Ricordo di essermi chiusa in un silenzioso panico, con le gambe che come degli automi continuavano a pedalare. Ricordo di aver provato uno strano disagio e una paura che aveva cancellato quel senso di sicurezza e libertà che fino a un attimo prima mi pervadeva. Non saprei dire quanto sia durato quello squallido assedio. A un certo punto credo che il mio silenzio li abbia stancati e sgassando se ne sono andati. Non ho mai detto a nessuno quello che mi è successo quel pomeriggio. L’unico a cui l’ho raccontato è stato il mio grande albero su cui mi sono rifugiata il giorno dopo. E la bicicletta non l’ho più presa.


Pubblicato il 25 febbraio 2020 su Il Clan delle femmine




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