«poeta o poetessa? Non come te poeta io sono?/ io sono poetessa e intera non appartengo a nessuno» Biancamaria Frabotta
Recentemente, mi è capitato di condividere su Facebook un articolo in cui mi si definiva “poeta” al posto del consolidato “poetessa”, e nei commenti si è scatenata una piccola rivolta. È comprensibile che l’uso del termine “poeta” come invariabile possa inizialmente suonare “stonato” a un orecchio abituato alla declinazione femminile in poetessa, ma penso che, se si dovesse propendere per la forma invariabile, con il tempo ci si potrebbe facilmente abituare.
Del resto la lingua è qualcosa di vivo e in continua evoluzione, dovendosi giustamente conformare ai cambiamenti sociali e culturali. Ciò riguarda in particolar modo la formulazione di neologismi per declinare al femminile i nomi di molteplici attività professionali di cui esistevano solo le forme maschili, semplicemente perché per secoli esse sono state precluse alle donne. Basti pensare al recente dibattito sull’introduzione di termini quali “sindaca”, “assessora”, “ministra”.
Si può correttamente obiettare che nel caso del sostantivo “poeta” esiste già la declinazione femminile. “Poetessa” è infatti una parola classica, accreditata da secoli di uso letterario. Le prime attestazioni epigrafiche del termine risalgono al III secolo a.C. e si riferiscono alle poetesse vaganti di età Ellenistica. E allora perché da più parti si va sostenendo che sia più corretto usare “poeta” per entrambi i sessi? Alla fine degli anni Ottanta, il termine “poetessa” viene messo in discussione nell’opera “Il sessismo nella lingua italiana”, curata da Alma Sabatini e promossa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dalla Commissione per le Pari Opportunità; un testo che promuove la parità linguistica tra i generi maschili e femminili, supplendo alla mancanza, nella lingua italiana, di declinazioni al femminile di alcuni termini.
Sabatini sostiene che «il latino “poeta, -ae” è di genere maschile, ma della prima declinazione, cui appartengono i nomi femminili» e che «Anche il plurale maschile “poetae” è foneticamente legato al genere femminile». Suggerisce quindi la studiosa «di usare “poeta” anche per la donna, che non la diminuisce come il suffisso “-essa” e (…) che, inoltre, ricalca foneticamente la maggioranza dei nomi femminili». Ecco dunque una delle principali ragioni per cui viene proposto l’uso del termine poeta anche al femminile: la tendenza a considerare dispregiativi i femminili in -essa, a intravederci una sospetta “deminutio”, una connotazione negativa. L’introduzione di poeta al posto di poetessa si legherebbe quindi a una generale richiesta di sostituire le forme in –essa con forme senza suffisso: avvocata, dottora, professora, ecc. anziché avvocatessa, dottoressa, professoressa.
Certa cinematografia comica italiana degli anni ’70 e ’80 ci ha del resto abituati all’attribuzione di una valenza ironica, sarcastica e maliziosa alla declinazione femminili di alcune professioni: la “professoressa”, la “dottoressa”, la “soldatessa” ecc. Ma un utilizzo in qualche modo discriminatorio del termine “poetessa” pare etichettasse già le scrittrici del diciannovesimo secolo.
Un interessante articolo di Jessica Roberson su JSTOR Daily, tradotto da Roberto R. Corsi, bene illustra la discriminazione nei confronti del canone delle “Poetesse” e le remore di molti critici elitari maschi verso chi fa del sentimento il proprio argomento principe. Spiega l’autrice: «Il lavoro della Poetessa era, dunque, pertinente alle emozioni, gradevole, di facile lettura, ma non era visto come realmente artistico né ambizioso. Anzi, all’apogeo della tradizione delle Poetesse, ovvero negli anni venti e trenta del milleottocento, tale “etichetta” era intercambiabile con qualità “di genere” come sentimentalismo, emozionalità effusiva, immagini floreali.» E aggiunge: «Alcuni critici del ventesimo secolo hanno espresso riserve sulla qualità del lavoro prodotto dalla tradizione delle Poetesse, che spesso hanno impiegato tecniche formali di vecchio stile, riecheggianti quelle destinate alle classi lavoratrici, come quella della ballata. In altre parole, le loro poesie erano accessibili. In più, i temi erano tipicamente di natura sentimentale, tesi a provocare emozioni più “tenui”: modalità di risposta spesso associata a mancanza di razionalità e verve intellettuale […] siamo stati culturalmente condizionati a credere che il sentimento vada benissimo, ma sia privo di ambizione e non sia prodotto di autentico genio (maschile).»
Ma diamo per assodato che non sussistano più pregiudizi associati al termine poetessa e consideriamo unicamente l’aspetto linguistico. “Poeta” al femminile non sarebbe certo un caso isolato, né tantomeno una stortura. Esistono svariate parole derivanti dal greco che sono invariabili: “atleta”, “pediatra”, “dentista”, “farmacista”, “acrobata”, “artista”, “musicista”, pianista, “concertista” questi ultimi legati, per di più, al mondo dell’arte, come poeta.
E allora perché non “la poeta”?
Articolo pubblicato il 12 settembre 2019 su Librinews
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