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Immagine del redattoreFlavia Novelli

Maria Grazia Calandrone. La poesia come impegno civile

Aggiornamento: 22 feb 2021


Intervista



Ricordo che, quando la vidi la prima volta (le nostre figlie andavano all'asilo insieme ), pensai subito che non potesse che essere una poetessa. Tutto in lei esprimeva poesia: lo sguardo, la postura del corpo nello spazio, quei suoi capelli che a me ricordano il carbone di zucchero che da bambina trovavo nella calza il giorno dell’epifania.

Incontriamo oggi Maria Grazia Calandrone, una delle voci più autorevoli e interessanti della scena poetica contemporanea, italiana e non solo. Agli antipodi dall’immagine stereotipata della poetessa chiusa nella sue ‘stanze d’alabastro’ isolata dal mondo, Maria Grazia Calandrone è poetessa, drammaturga, artista visiva, performer, autrice e conduttrice per Radio 3 Rai (Qui comincia, Alfabetiere Poesie e Poesia in technicolor), firma del “Corriere della Sera” e de “il manifesto”, curatrice di una rubrica di inediti per il mensile internazionale “Poesia”, regista del ciclo di interviste «I volontari» (un documentario sull’accoglienza ai migranti) e del videoreportage su Sarajevo «Viaggio in una guerra non finita», docente di laboratori di poesia nelle scuole, nelle carceri, con i malati di Alzheimer e volontaria nella scuola di lettura per ragazzi “Piccoli Maestri”.

É il suo credere fortemente nel senso e nella funzione etica della poesia a spingerla oltre la sola attività della scrittura, in un costante impegno di divulgazione della poesia, che la porta soprattutto nei luoghi dove essa avrebbe più difficoltà ad arrivare.

Non dall’isolamento, dunque, prende corpo la sua poesia, ma dall’immersione nel mondo, dall’esposizione al contagio con la realtà, dal vivere. Anche nelle sue liriche più intime, l’IO non si erge mai a protagonista ma, spinto dalla compassione (concetto caro all’autrice), si fa strumento e filtro di una voce corale, la voce della comunità umana. Per l’autrice, il dato biografico è poco rilevante se fine a se stesso. Scrive infatti: «La scrittura di ognuno credo attinga alla vita, ma soltanto per essere vera: come da un magazzino, per fare di sé un archivio disponibile di esperienza viva al servizio delle vite di altri e, meglio ancora, della interpretazione della storia e del mondo» (A. Zorat, «Semicerchio», a. 16, n. 46, gennaio 2012).

Una costante nell’opera poetica di Maria Grazia Calandrone è proprio l’attenzione per le vicende umane, siano esse i grandi eventi storici e sociali (dalla guerra di trincea ai disastri di Hiroshima, dagli eccidi di Guernica, Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema, alla cronaca della Thyssen) o i piccoli e grandi drammi delle singole esistenze. Vicende raccontate attraverso l’identificazione che, come l’autrice afferma, ha il «duplice senso di “individuare” (identificare un individuo) e di “diventare” (sentire i sentimenti di un altro): il sentimento della compassione, che oggi piace chiamare empatia, non viene messo in moto dai grandi numeri: è necessario osservare, avvicinarsi al dramma di una singola esistenza, affinché ricordiamo che ognuno di quei numeri è un particolare e reale e concreto essere umano: con i suoi oggetti, il suo odore, i suoi affetti, le sue malinconie, la sua memoria, i suoi lampi di gioia e le sue certezze. Il poeta è “utile” a individuare e riconoscere il singolo nei grandi numeri».

Se nella poetica di Maria Grazia Calandrone a prevalere è il concetto, non meno importanza riveste la cura per la parola e il linguaggio, che incidono sulla realtà con la precisione di un bisturi. Mai semplici e mai banali, i versi si nutrono di parole visionarie e al tempo stesso fisiche. Il corpo, la carne (non a caso ho citato il bisturi) ricorrono frequentemente, in un lessico che a tratti attinge a un solo apparentemente impoetico vocabolario medico-anatomico: «anatomia», «auscultazione», «anestetizzati», «cauterizzare», «dissezione», «articolazione», «batterico», «blocco operatorio», «camera ovarica», «corticale», «cresta iliaca», «placca calcarea», «tissutale».

La lettura delle poesie di Maria Grazia Calandrone è un viaggio periglioso ma affascinante attraverso le profondità di un linguaggio alto e altro rispetto a quello che ci appartiene e che padroneggiamo, che ci trascina fuori dalla nostra comfort zone; una lingua straniera, viva, che continuamente sembra rinascere, destrutturarsi, rimodellarsi.



1. Quando e come hai compreso che la poesia è la tua “lingua madre”?

Al ginnasio, ascoltando il “Notturno” di Alcmane letto dalla mia professoressa, Paola Moretti, che si rivelò poi essere notevole autrice di teatro. Dici bene parlando di “lingua madre”, perché la sensazione fu proprio quella di una casa, di un mondo familiare che volevo tornare ad abitare.


2. Per la tua ultima raccolta poetica hai scelto un titolo impegnativo, “Il bene morale”. Quanta fiducia nutri nella capacità dell’essere umano di compiere il bene con le proprie azioni?

Credo che compiere il bene sia una scelta. Ci troviamo quotidianamente davanti a una lunga serie di bivi: sta a noi scegliere tra il nostro fascismo naturale e il bene. Giardino della gioia, il libro che uscirà a settembre, insiste proprio su questo nostro contenere ogni bene e ogni male e, dunque, sulla nostra continua responsabilità. Aggiungo solo che l’etica, la «legge morale» non è un peso, è armonia tra le parti di sé e tra io e mondo.


3. Che ruolo possono/devono avere i poeti e la poesia nella società odierna?

I poeti, in un momento politicamente e socialmente così duro, credo abbiano il compito di fare da controcanto all’odio e alla paura che quotidianamente ci vengono inoculati. «Sette» della scorsa settimana titolava Vi amo tutti, a segnalare i primi sintomi di stanchezza collettiva per la rabbia sociale e i nemici immaginari contro i quali veniamo (anche materialmente, purtroppo) armati.


4. Tu sei una poetessa, una donna, molto attiva e impegnata. Fra le altre cose, porti la poesia all’interno delle carceri, nelle scuole e fra i migranti del centro Baobab. C’è una condizione che, a mio parere, accomuna carcerati, bambini e migranti: l’assenza o limitazione della libertà e dell’autodeterminazione. Come viene accolta in queste circostanze la poesia e che funzione può svolgere?

Anche in quei luoghi la poesia non è solo un luogo di libertà e immaginazione alternativo alla condizione concreta, ma la sottolineatura della parte invisibile di quella che chiamiamo “realtà”. Se impariamo a essere sensibili a quella parte, invisibile e collettiva, possiamo diffidare dei confini, mentre lottiamo per abbatterli. Nelle carceri, in particolare, la poesia ha il valore profondo di messaggio lanciato oltre le sbarre, all’indirizzo delle persone amate, per dire loro quello che le parole comuni non arrivano a dire. In questa pagina ci sono video e articoli nei quali descrivo più nel dettaglio alcune di queste esperienze.


5. C’è un “nocciolo profondo”, un episodio, un dolore, un sentimento, un concetto, che hai provato ad esprimere attraverso la poesia, senza riuscirci?

No, non mi pare. Mi sembra di aver compiuto un percorso verso la chiarezza. Ma, di certo, domani vorrò essere ancora più chiara…


6. Nel salutarti e ringraziarti, ti chiediamo un ultimo regalo per i lettori: una tua poesia a cui sei legata in modo particolare.

Grazie a te e a voi per l’ascolto. Vi copio una fra le ultime che ho scritto, che mi pare riassuma in maniera appunto chiara buona parte di quello che ho imparato, fino a oggi:


P – Persona

«Una persona è quello che rimane quando è lontana», questo l’ho già scritto. Io sono qui e ti manco, perché ricordo solo quello che fa bene ricordare: ho setacciato l’oro dalla mia vita, l’oro della sabbia dell’infanzia, quando mia madre mi portava al mare e guardavo per ore come luccica il mare dai promontori. Non serve ricordare quando l’amore si trasforma in mostro. Non serve ricordare quante volte io sono già morta mentre ero viva. Non serve ricordare l’abbandono. Una persona è quello che contiene dopo che la vita ha lavorato il legno della vita fino alla midolla, fino a farne una barca leggerissima che tiene il mare sotto qualunque cielo. Io ricordo soltanto il luccicare a perdita d’occhio della mia vita. Se guardi bene, vedi una cosa viva. Se guardi bene, vedi che adesso finalmente sono solo viva.

Roma, 31 dicembre 2018


Articolo pubblicato il 12 settembre 2019 su Librinews

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