Il tuo corpo amico l’ho visto trasformarsi sotto il peso della malattia.
Eri un’elegante gazzella, minuta, regale, con la pelle del colore dell’anice stellato. Eppure, inconsapevole e impacciata, il tuo corpo lo indossavi con semplicità, con naturale spontaneità.
Poi ti ha presa la malattia e lentamente ti ha trasformata, privata del dominio su quel corpo di cui non eri più la padrona ma la schiava sofferente.
I tuoi capelli di pece, che eri solita affidare al lungo e paziente intreccio di mani esperte, sono diventati un ricordo, riflesso in posticci estranei, da te indossati con elegante naturalezza.
Con il tuo corpo ormai pesante da portare hai abbandonato l’orgoglio e il pudore. Ti sei lasciata da me accompagnare, massaggiare, lavare. Con la tua disarmante ironia mi dicevi “ma allora mi vuoi proprio bene. Io non so se lo farei per te”. Io invece lo sapevo che lo avresti fatto, o forse no, e ti avrei amata lo stesso.
E mentre lentamente camminavamo, avanti e indietro, lungo quel corridoio bianco; mentre ti stendevo la crema sulle gambe, mentre ti lavavo la schiena, sapevamo entrambe di stare rubando attimi al tempo. E in quell’ultimo abbraccio, io ci sono rimasta aggrappata. E nelle ultime parole che mi hai sussurrato “Mi mancherai tantissimo” io ancora mi tormento. E nel tuo ultimo messaggio “Non riesco a respirare”, io ancora mi sento soffocare.
Ma ora che il tuo corpo non c’è più, ho ancora e sempre i tuoi occhi puntati dritti nei miei e nelle tue pupille di onice nera vedo, ancora e sempre, il riflesso di una gazzella che corre libera.
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