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Immagine del redattoreFlavia Novelli

1941 L’anno in cui nel firmamento poetico e letterario si spensero tre luminosissime stelle


“Sappiate che esistono solo omicidi. Al mondo nessuno si è mai suicidato!” (E. Evtushenko)


Tre indimenticabili scrittrici, tre donne straordinarie, tre vite tormentate, accomunate dallo stesso tragico finale e da una data: il 1941. Non si conoscevano Virginia Woolf, Karin Boye e Marina Cvetaeva, eppure maturarono la stessa decisione di porre fine alle loro vite, nello stesso anno, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra. È tragicamente lungo l’elenco dei suicidi che ha caratterizzato la letteratura femminile del secolo scorso: Sylvia Plath, Anne Sexton, Antonia Pozzi, Amelia Rosselli, Nadia Campana, Alfonsina Storni, per citare alcuni nomi. Un elenco che testimonia il nesso fra scrittura e morte e fra malattia mentale e malattia sociale. Lo psicanalista Paul Mathis sosteneva che “Lo scrittore non è sicuro di arrivare attraverso la scrittura a sciogliersi dalla pulsione di morte. Il suo rapporto con la morte rimane lancinante, oscuro, poco chiaro. In un primo tempo si potrebbe pensare che scrivere significhi proteggersi dalla morte” (Paul Mathis “I percorsi del suicidio”, Sugarco edizioni, 1979). Dietro alle storie individuali e personali di presunta malattia psichica – “malate di nervi” o “isteriche”, così si veniva etichettate – si nascondono forse i presupposti storici e culturali per poter parlare di una sorta malattia sociale che lega con un filo rosso le sorti delle scrittrici del Novecento. Non poteva del resto essere agilmente abitato dalla sensibilità poetica quel Novecento secolo di guerre mondiali, della persecuzione degli ebrei, di guerre civili e guerre fredde, di sanguinose rivoluzioni, delle dittature nazionaliste, dell’ossessione staliniana del nemico interno. Alla difficoltà di trovare il proprio spazio espressivo in un’epoca pervasa dalla violenza, si aggiungeva la complessa gestazione di un nuovo sentire identitario sollecitato dalle lunghe lotte per i diritti portate avanti dalle suffragette inglesi di inizio secolo e poi dai movimenti femministi del ’68. Il ruolo tradizionalmente rivestito dalle donne nella società veniva messo in discussione, ma la conquista di nuove posizioni era contrastata e difficile da raggiungere. Inevitabile che tali stravolgimenti sociali avessero delle ripercussioni su chi, per sua natura, nutre il bisogno di indagare e raccontare, come i poeti e soprattutto le poetesse, giacché la poesia femminile, più di quella maschile, come osserva Paola Mastracola, è “costruita sulla ricerca della verità: innanzitutto sulla ricerca della propria verità, di ciò che nella propria vita è “vero”; scrivere è riflettere su se stesse, riflettersi, piegarsi dentro e lì dentro guardare a costo di trovare il buio e l’orrore […] fino in fondo, fino alle estreme conseguenze: la follia ed il suicidio” (G. Davico Bonino e P. Mastracola, a cura di, “L’altro sguardo. Antologia delle poetesse del 900” Mondadori Oscar, 1996).



La “cercatrice irrequieta”, si definiva Virginia Woolf, proprio a sottolineare la lotta quotidiana contro la cultura dell’epoca che, in quanto donna, la voleva “Angelo del focolare” facendola sentire, come ogni donna, perennemente in colpa. A lei fu precluso l’accesso agli istituti scolastici, al contrario ovviamente dei fratelli, ma ciò non le impedì di formarsi da autodidatta e rafforzò la consapevolezza delle minori possibilità avute in quanto donna. “Una donna deve avere denaro, cibo adeguato e una stanza tutta per sé se vuole scrivere romanzi” afferma in “Una stanza tutta per sé”, il saggio che rivendica la necessità, per le donne, di raggiungere un’istruzione completa e di poter accedere liberamente al mondo culturale. Passata alla storia come madre dello stream of consciousness, che sviluppò in testi fondamentali come “La signora Dalloway”, e “Gita al faro”, Virginia Woolf riuscì a indagare ogni aspetto dell’esistente, fondendo lirismo e indagine psicologica. Nella sua vita ebbe due grandi amori, il marito Leonard Woolf e la scrittrice Vita Sackville-West, alla quale è ispirata una delle sue opere più visionarie, il romanzo “Orlando”, in cui Orlando è la stessa Vita, che nasce uomo e diventa donna, attraversando trasformazioni nel fisico e nella mente durante un’esistenza lunga tre secoli (dal XVII al XIX). Da poco è uscito per Donzelli editore, uno splendido volume che raccoglie oltre un centinaio di lettere, le più significative dell’ampio carteggio tra le due donne che andò avanti per vent’anni: “Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio. Virginia Woolf, Vita Sackville-West”. Aveva 59 anni Virginia Woolf quando, il 28 marzo 1941, raccolse nelle tasche delle pietre e si gettò nel fiume Ouse, nei pressi della sua casa nel Sussex. “L’unica esperienza che non descriverò mai”, così aveva scritto della morte. Il suo corpo fu recuperato solo tre settimane dopo, rinvenuto da alcuni bambini a valle. Con un’espressione tipica dell’epoca, il decesso fu archiviato come “suicidio mentre l’equilibrio della sua mente era disturbata”. Eppure il marito, Leonard Woolf – intellettuale ebreo, attivo politicamente – in uno dei volumi della sua autobiografia, scrive che “la perdita di controllo della sua mente cominciò solo un mese o due prima del suicidio”. Woolf racconta anche che nel maggio e giugno del 1940 discutevano spesso di cosa avrebbero dovuto fare nell’eventualità di una invasione tedesca e che entrambi erano giunti alla conclusione che si sarebbero suicidati. Non si trattava di un pensiero astratto, ma di un progetto concreto: pare infatti che, tramite il fratello psicanalista di Virginia, si fossero già procurati delle dosi letali di morfina. Questo fatto sembrerebbe provare che la morte, il suicidio, fossero lucidamente contemplati da Virginia Woolf e allontanerebbe l’ipotesi del gesto inconsulto dettato da disturbo mentale. Thomas Szasz, che con il suo libro, “La mia follia mi ha salvato”, si propone di liberare Virginia Woolf dai luoghi comuni che la riducono a vittima della malattia mentale, sostiene che se di “follia” dobbiamo parlare nel caso di Virginia, si tratta del rifiuto di mettere in comunicazione le varie parti di sé e di far dialogare tra loro i suoi molteplici io, scegliendo di tenere distinte e separate differenti sfere della sua vita. Al punto che, secondo Szasz, ella si uccise non perché fosse veramente folle, ma semplicemente perché “voleva mettere fine alla sua vita”, per stanchezza e disillusione.


Karin Maria Boye è stata una scrittrice, poetessa e critica letteraria svedese. Fu la madre, attiva sulle tematiche femminili, politiche, religiose e con una formazione in letterature classiche europee, a occuparsi della prima educazione di Karin. Un imprinting che segnò gran parte della sua vita. Gli anni del liceo segnarono la svolta, con la scoperta della propria bisessualità, che la portò a respingere le sollecitazioni a iscriversi alla facoltà di teologia, ritenendo che tale percorso l’avrebbe portata a dover rinnegare la sua natura. E proprio alle svolte che avvengono nella vita e al dubbio riguardo l’esistenza di Dio sono dedicate le poesie della sua prima raccolta “Moln” (Nuvole). Karin si iscrisse all’università di Uppsala, dove studiò greco antico e lingue e letterature nordiche, prese parte al movimento radicale socialista Clarté e si sposò. Ma la lacerazione provocata dalla consapevolezza della propria inclinazione bisessuale e dall’impossibilità di accettarla pienamente – anche perché l’omosessualità era considerata reato in Svezia – contribuì a farla sprofondare in un periodo di grave depressione con tendenze suicide, a seguito del quale decise di partire per Berlino, dove si sottopose a psicoanalisi. Durante la permanenza in Germania incontrò Margot Hanel, una giovane donna ebrea di estrazione borghese che visse con lei fino alla sua morte e che si tolse la vita un mese dopo il suo suicidio. Sarebbe però riduttivo ritenere che all’origine del suicidio della Boye ci fosse esclusivamente un dissidio interiore per la non accettazione della bisessualità. Con i suoi viaggi nell’URSS di Stalin, nella Germania che preparava il terreno all’avvento di Hitler e nella Grecia culla della civiltà e dei valori a lei più cari, Boye fu testimone diretta delle profonde inquietudini del Novecento, quelle che poi la ispireranno a scrivere il romanzo distopico “Kallocaina” (spesso accostato a “1984” di George Orwell, pubblicato 9 anni dopo, e a “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley). Sarà proprio nel giorno in cui la tanto amata Grecia venne invasa dalle truppe tedesche, il 23 aprile del 1941, che Karin si suicida, solitaria nella natura, con un’overdose di sonniferi.


Certo che fa male, quando i boccioli si rompono. Perché dovrebbe altrimenti esitare la primavera? Perché tutta la nostra bruciante nostalgia dovrebbe rimanere avvinta nel gelido pallore amaro? Involucro fu il bocciolo, tutto l’inverno. Cosa di nuovo ora consuma e spinge? Certo che fa male, quando i boccioli si rompono, male a ciò che cresce male a ciò che racchiude. Certo che è difficile quando le gocce cadono. Tremano d’inquietudine pesanti, stanno sospese si aggrappano al piccolo ramo, si gonfiano, scivolano il peso le trascina e provano ad aggrapparsi. Difficile essere incerti, timorosi e divisi, difficile sentire il profondo che trae, che chiama e lì restare ancora e tremare soltanto difficile voler stare e volere cadere. Allora, quando più niente aiuta si rompono esultando i boccioli dell’albero, allora, quando il timore non più trattiene, cadono scintillando le gocce dal piccolo ramo, dimenticano la vecchia paura del nuovo dimenticano l’apprensione del viaggio – conoscono in un attimo la più grande serenità riposano in quella fiducia che crea il mondo. (Traduzione di Valeria Marcheschi) da “Karin Boye, Poesie”, Le lettere, Firenze, 1994



Marina Ivanovna Cvetaeva fu una delle voci più originali della poesia russa del XX secolo e l’esponente più di spicco del locale movimento simbolista. Nata a Mosca l’8 ottobre 1892, figlia di un professore di Belle Arti all’Università di Mosca e di una pianista, Marina trascorse l’infanzia in un ambiente ricco di sollecitazioni culturali. Dotata di un’intelligenza vivissima, a sei anni scriveva già poesie in russo, francese e tedesco. Nel 1909 si trasferì da sola a Parigi per frequentare lezioni di letteratura francese alla Sorbona. Il suo primo libro, “Album serale”, contenente le poesie scritte tra i quindici e i diciassette anni, venne pubblicato a sue spese e in tiratura limitata; ciò nonostante fu notato e recensito da alcuni tra i più importanti poeti del tempo, come Gumiliov, Briusov e Volosin. Fu a casa di quest’ultimo che, nella primavera del 1911, incontrò il suo futuro marito, Sergej Efron; avevano 17 anni lei e 18 lui. Di lì a poco comparve la sua seconda raccolta di liriche, “Lanterna magica”, e nel 1913 “Da due libri”. Intanto, il 5 settembre 1912, era nata la prima figlia, Ariadna (Alja). Durante la rivoluzione di Febbraio del 1917 la Cvetaeva si trovava a Mosca e fu dunque testimone della sanguinosa rivoluzione bolscevica di ottobre. A causa della guerra civile si trovò separata dal marito, che si unì, da ufficiale, ai bianchi. Bloccata a Mosca, non lo vide dal 1917 al 1922. Durante l’inverno 1919-20 si trovò costretta a lasciare la figlia più piccola Irina, nata in aprile, in un orfanotrofio, dove morì poco dopo per denutrizione. Quando la guerra civile ebbe fine, Marina raggiunse il marito all’Ovest. A Praga visse felicemente con Efron dal 1922 al 1925, dando alla luce il terzo figlio, Mur. Partì in seguito per Parigi, dove trascorse con la famiglia i successivi quattordici anni. Anno dopo anno, tuttavia, fattori diversi contribuirono ad un grande isolamento della poetessa e ne comportarono l’emarginazione. Sempre più immersa nella miseria, si decise a tornare in Russia. Nell’agosto del 1939, però, sua figlia venne arrestata e deportata nei gulag. Ancora prima era stata presa la sorella. Quindi venne arrestato e fucilato Efron. La Cvetaeva venne evacuata ad Elabuga, nella repubblica autonoma di Tataria, dove visse momenti di disperazione, abbandono e desolazione inimmaginabili. Il 31 agosto del 1941, di domenica, Marina salì su una sedia, rigirò una corda attorno ad una trave e si impiccò. Lasciò un biglietto, poi scomparso negli archivi della milizia. Nessuno andò ai suoi funerali, svoltisi tre giorni dopo nel cimitero cittadino, e non si conosce il punto preciso dove fu sepolta. Un anno prima del suicidio scriveva sul suo quaderno: “già da un anno cerco con gli occhi un gancio… Da un anno misuro la morte. Tutto è mostruoso e terribile. Ingoiare pasticche è disgustoso, buttarsi da una finestra è abominevole e ho un’innata ripugnanza per l’acqua. Non voglio spaventare nessuno (da morta), mi sembra di aver già paura, da morta, di me stessa. Non voglio morire. Voglio – non essere. Assurdo. Finché sarò necessaria… ma, Dio mio, come sono piccola, quanto poco posso fare! Vivere fino in fondo – è come masticare fino in fondo. Assenzio amaro.” La poesia della Cvetaeva, spesso enigmatica, riunisce in sé eccentricità, metafore paradossali e rigoroso uso della lingua. Se durante la prima fase creativa, la Cvetaeva risentì dell’influenza di Majakovskij e del suo vigore poetico, in seguito se ne distaccò e si accostò maggiormente sia all’animo poetico di Puškin sia al poeta e scrittore Boris Pasternak, che conobbe per lettera e di cui s’innamorò completamente. Marina e Boris si scrissero per quattordici anni, senza mai incontrarsi, si sostennero, irragionevolmente travolti l’uno dall’altra, essenziali l’uno per l’altra. “Tu mi sei affine tutto, da parte a parte, terribilmente e angosciosamente affine, come io a me stessa”. (“Il Settimo sogno. Lettere (1926)”, Editori Riuniti). “L’amore di Marina Cvetaeva è un’arte poetica che comprende tutto, è un modo di vivere che a volte è disincarnato, costruito sopra l’assenza dei corpi, fatto soltanto di parole, a volte distrattamente erotico. […] Preferiva ‘amare gli assenti’ dentro il paese della sua anima, e attribuire loro anche le qualità che non possedevano: far combaciare l’amore con l’idea dell’amore. […] Aveva un bisogno carnale delle parole degli altri (‘trovate parole che mi incantino, credo soltanto agli incantesimi’) […] e cercava interlocutori alla sua altezza, persone che sapessero ascoltare, cercava un’eco alle sue parole, un’anima gemella vivente, o più di una, aveva bisogno di versi e di scintille, ma le persone si stancavano in fretta della fatica a cui lei costringeva la loro mente e tutti i muscoli dell’anima, e si ritraevano spaventate, stordite” (Annalena Benini “L’amore e il nonamore di Marina Cvetaeva”). Non era certo una donna a cui importasse essere ragionevole o rispettabile, per tutta la vita oppose una coraggiosa resistenza alla rispettabilità: “Una donna per bene non è una donna. Una donna per bene non è una poetessa”.


Tentativo di gelosia


Ditemi: come va con l’altra? Meglio? meno grane? – Mano ai remi! – Vana linea costiera s’assottiglia, scompare la memoria estrema di me, isola fluttuante (per cielo, non per mare…) Anime, anime: sorelle! Anime: amiche – mai più amanti! Come vi va con la creatura semplice? Senza divinità? E poi? Voi, sceso dal trono, voi che avete deposto la regina, come vivete? Non c’è male? Non più beghe? E bevete – quanto, adesso? E la cucina? Il dazio della mediocrità immortale come lo pagate, poveretto? “Basta con le scenate, con gli eccessi – cambio casa, vado via!” Con la qualunque – come state di che vivete, voi – mio eletto? Mangiate – e dopo pranzo un sonnellino? – Non lamentarti quando sarai sazio!…- Con il simulacro come state voi che avete dissacrato il Sinai? Come vivete con la donna terrestre? Per la costola vi piace? Non vi frusta la fronte la vergogna? La briglia di Giove vi dà pace? E la salute? E i nervi? Senza problemi? A letto tutto bene? L’immortale piaga della coscienza come la curate, poveretto? Come vivete con la merce da mercato? Troppo cara la vita? Vi assilla l’alto prezzo? Dopo i marmi di Carrara che ve ne fate del tritume di gesso? (È in pezzi il dio scolpito nell’argilla…) Come ci state con la milleunesima voi – che avete conosciuto Lilith? Già v’annoia l’ultima trovata della moda? Sottratto all’incantesimo, dite, come ve la passate con l’umana senza il sesto senso? In coscienza – sei felice? No? In quel disastro senza dei come stai, amore? È dura? Sì? Come per me con l’altro?


Articolo pubblicato su Librinews

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