Flavia Novelli

22 set 201910 min

Vite (in)visibili di donne migranti. Un progetto europeo le racconta con immagini e parole.

Raccontare le storie, le vite, i percorsi di migranti e richiedenti asilo, attraverso lo sguardo e il linguaggio degli artisti. Questo l’obiettivo alto che si è posto il progetto europeo “REFEST Images & Words on Refugee Routes”, progetto co-finanziato dal’Unione Europea all’interno del programma Europa Creativa, che ha chiamato a raccolta 32 artisti: 8 poeti dall’Italia, 8 illustratori dalla Spagna e 16 fotografi da Bosnia Erzegovina e Croazia.

A dicembre 2017, in una Sarajevo avvolta da una candida neve che sembra voler pudicamente celare i segni di vecchie ferite non ancora cicatrizzate, si svolge il primo meeting organizzativo in vista delle residenze artistiche itineranti che si svolgeranno nei quattro Paesi partner del progetto. Ogni residenza lavorerà su un aspetto specifico del tema generale: ‘identità’ per la Spagna, ‘tracce’ per la Croazia, ‘casa’ per la Bosnia e ‘donne migranti’ per l’Italia. In ragione di ciò, scelgo senza esitazione di far parte del gruppo che parteciperà alla residenza italiana, in programma dal 12 al 18 febbraio 2018 a Bologna e a Fano.

La sera che arriviamo a Bologna, durante una cena conviviale e carica d’emozione, ci viene illustrato il programma della settimana di residenza. Il primo appuntamento è per la mattina successiva nella sede dell’associazione MondoDonna che ha organizzato per noi l’incontro con alcune donne ospitate nelle strutture che gestisce. Curiosità ed imbarazzo traspaiono sui loro e sui nostri volti, con l’aggiunta, nel loro caso, di una comprensibile dose di diffidenza. Bisogna trovare il modo di allentare la tensione e ridurre le distanze.

A gettare un ponte, saranno dei semplici lokum, piccoli dolcetti zuccherosi da gustare con il caffè turco, che Imrana e Wanda (le fotografe bosniache) hanno previdentemente portato da Sarajevo.

A questo punto il clima si è fatto più disteso e, in circolo, alternatamente, ci presentiamo e raccontiamo, noi e loro. Nigeria, Costa D’Avorio, Guinea, sono i paesi da cui provengono queste giovani donne. Una di loro, con un tenerissimo lapsus, esordisce dicendo “Mi chiamo Fatou, sono italiana”, subito dopo se ne rende conto e scoppia a ridere e noi con lei.

Sono belle, belle davvero, di una bellezza commovente, di quella bellezza che non ti viene consegnata gratuitamente alla nascita, ma ti si cuce addosso quando attraversi fame, guerra e persecuzioni, sopravvivi e rinasci. Il giorno dopo ci diamo appuntamento in Piazza Maggiore, come un qualsiasi gruppo d’amiche in un giorno di festa. C’è un sole complice che proietta le nostre ombre su una parete bianca di fianco alla Biblioteca Salaborsa e le fotografe si lasciano ispirare per scattare foto a quelle sagome di donne che la neutralità del grigio rende uguali.

Non sono un’ombra appiattita
 
sui muri
 
e sui marciapiedi
 
della tua città 
 
Ho sostanza e colore
 
un odore
 
un nome
 
un’identità
 
Se mi guardi
 
in pieno sole
 
mi potrai vedere
 
Se ti fermi insieme a me
 
nel sole
 
riuscirai a sentire lo stesso calore
 
Se hai voglia di ascoltare
 
ho la mia storia
 
da poterti raccontare
 
Se poi sotto il sole
 
insieme
 
cominciamo a camminare
 
scoprirai che le nostre ombre 
 
sono così simili e vicine
 
che faticherai a distinguere 
 
la tua dalla mia
 
E allora capirai
 
Capirai 
 
che ho sostanza e colore
 
un odore
 
un nome
 
un’identità
 
Proprio come te

Anita è appoggiata ad uno di quei dissuasori in pietra che delimitano l’accesso alla piazza con il suo sguardo dolce e triste perso chissà dove. Una scolaresca la oltrepassa lambendola come l’acqua del mare attorno ad uno scoglio, senza degnarla di uno sguardo. Anita, bellissima ed invisibile.

Guardami
 
Non sono trasparente
 
Non sono invisibile
 
Ho occhi che hanno pianto troppo
 
Pelle ferita
 
Labbra che faticano a sorridere
 
Ho una storia alle spalle
 
che continua a pesare
 
su queste spalle
 
che non ti fermi a guardare
 
fatte di pelle
 
muscoli e nervi
 
come le tue
 
Portano il peso
 
della mia storia
 
del luogo in cui ho avuto la sventura di nascere
 
Che colpa ne ho se sono nata lì e non altrove?
 
Se il mio altrove non è la tua accogliente casa?
 
Guardami
 
Cos’hai tu di diverso da me?
 
I miei occhi si commuovono come i tuoi
 
di fronte ai nostri bambini
 
Ma la mia bambina non è nata con un futuro assicurato
 
Il suo futuro me lo sono sudato
 
mettendola al mondo
 
sui sedili di un pullman
 
attraversando la Libia
 
e poi con lei il mare
 
Lasciandomi far del male
 
Ne porto i segni sulla pelle
 
Le mie belle e giovani guance
 
sono attraversate dalle cicatrici
 
delle lame affilate
 
che hanno voluto lasciare la loro firma indelebile
 
Per ricordarmi che io sono una donna
 
Una donna straniera
 
Una donna nera

Trascorriamo insieme tutta la giornata, lasciando che siano loro a guidarci nei luoghi che frequentano abitualmente. Passeggiando sottobraccio anche le storie più drammatiche trovano il coraggio di raccontarsi. Anita vorrebbe fare la parrucchiera e quando con aria sognante si blocca davanti alla vetrina di un parrucchiere, Wanda la trascina dentro e, con il consenso del proprietario, le scatta delle foto mentre con spazzola e phon in mano gioca come una bambina con i capelli di Fatou.

Ma è la stessa timida e dolce Anita che un istante dopo reagisce come una belva furiosa ai pesanti apprezzamenti di un balordo, tanto che dobbiamo trascinarla via. Le ragioni profonde le comprenderò di lì a poco, quando mi parlerà della sua fuga dalla Nigeria, attraverso la Libia. L’orrore di quel viaggio me lo racconta solo con gli occhi. Non credo che sia per mancanza di coraggio che non ne voglia parlare, quanto piuttosto per pudore e dignità. Purtroppo non è difficile immaginare cosa possa aver subito una ragazza giovane e bella come lei. Mi racconta però della sua Grace, partorita su un pullman durante il viaggio in Libia. Ci inviterà anche nel minuscolo appartamento dove è ospitata, per farcela conoscere.

Pranziamo tutte insieme in un locale che Omou frequenta abitualmente e che ci tiene a far conoscere. Con lei, durante la mattina avevo chiacchierato a lungo visitando la Salaborsa, luogo in cui è solita rifugiarsi a leggere per migliorare il suo italiano. Omou ha solo 19 anni, è in Italia da un anno e tre giorni (li conta!). Ha lasciato la Guinea e la sua bambina Fatima di 3 anni perché suo padre la voleva far sposare, ma a lei gli uomini non piacciono, lei ama le donne e in Italia ha trovato la libertà e l’amore. È un vulcano d’energia Oumou!

Libera
 
Sono fuggita
 
per essere libera
 
Libera di amare
 
Sono fuggita
 
da mio padre
 
e dall’uomo che mi voleva far sposare
 
Ho attraversato il mare
 
Ho portato con me
 
solo una fotografia
 
La mia bambina
 
Non è il frutto dell’amore
 
L’ho lasciata al di là del mare
 
Non è il frutto dell’amore
 
Ma è il mio amore
 
Sono fuggita per essere libera
 
Libera di amare
 
Sono fuggita in cerca di libertà
 
L’ho trovata a Bologna
 
Sabrina è il nome della mia libertà
 
e ci piace ballare

Il giorno dopo visitiamo un Centro di accoglienza straordinario (CAS) che ospita 6 donne e 6 bambini in attesa del visto e una struttura dello SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) a Granarolo. Anche se i luoghi sono accoglienti e curati, inevitabilmente richiamano alla mente dei penitenziari. Queste donne però non hanno commesso alcun reato. L’ultima sera, tutte insieme, partecipiamo all’evento di One Billion Rising in Piazza San Francesco, contro la violenza sulle donne. Ed è un grande insegnamento constatare come, nonostante abbiano problemi più concreti e primari da affrontare, siano consapevoli delle discriminazioni genere che subiscono le donne tutte.

Il momento dei saluti è caloroso e commovente come può esserlo quello fra chi in soli tre giorni ha condiviso un’esperienza di sorellanza che spesso non basta una vita. Ancora non sappiamo che a Fano altre donne, altre storie, ci coinvolgeranno altrettanto profondamente. Il primo incontro è con Collins, la giovane mamma camerunense sbarcata in Italia nell’ottobre 2015 dopo aver partorito il suo secondogenito Divane, a bordo della nave Dignity di Medici Senza Frontiere in soccorso nel Mediterraneo. Collins presta servizio civile nella struttura della onlus Cante di Montevecchio, dove si prende cura degli anziani e fa ricerca per migliorare la qualità dei servizi offerti agli utenti della struttura.

Il suo racconto è un pugno nello stomaco che continua a far male anche a distanza di tempo. Aveva 25 anni Collins, quando per lavoro si reca con suo marito a Banki, nel nord del Paese, affidando temporaneamente ai genitori il primogenito Warren di appena 2 anni. Una notte un commando di terroristi di Boko Haram irrompe nella loro stanza. Vengono picchiati e rapiti. Dopo un viaggio bendata, Collins si ritrova in una baracca in mezzo alla foresta, con un altro centinaio di donne, separata dal marito, che non rivedrà mai più. Ogni giorno è scandito da violenze, sevizie e umiliazioni. Viene loro chiesto di rinnegare la fede cattolica per seguire l’islam. Chi si rifiuta è torturata e uccisa.

Collins è incinta di pochi mesi. “Se non fosse stato per il mio bambino avrei pregato di morire, ma dovevo vivere per lui”. Chiede aiuto per fuggire ad una prigioniera che conosce bene la zona. Le due donne fuggono attraverso la foresta fino al confine nigeriano, dove un conoscente presta loro un’automobile con cui raggiungono la Libia. Ma qui vengono ridotte in schiavitù da un gruppo di libici: una corda al collo e nessun vestito addosso, soggette allo scherno degli schiavisti. Ormai al termine della gravidanza, riesce a imbarcarsi su un gommone insieme ad altre 120 persone. Del salvataggio in mare da parte di Medici senza frontiere e del parto avvenuto sulla nave Dignity abbiamo il racconto dei giornali e delle televisioni, perché quello di Collins si è interrotto prima, sotto il peso dei ricordi.

La mia storia è dolorosa da raccontare
 
dolorosa da ascoltare
 
Se inizio a parlare
 
so già che ci faremo male
 
È la storia dei mie due bambini
 
i cui nomi
 
porto tatuati sulla pelle
 
Il più grande non lo abbraccio da tempo
 
Divane invece mi cresceva dentro
 
mentre ogni giorno mi torturavano
 
e mi stupravano
 
Se non fosse stato per lui
 
avrei invocato la morte
 
Ma avevo il suo futuro
 
da coltivare
 
così ho deciso di scappare
 
Quando hanno iniziato a sparare
 
mi ha salvato il fango
 
in cui ho affondato e nascosto
 
la mia pelle
 
Perdonami se non riesco più a parlare
 
Ho bisogno di respirare
 
e provare a dimenticare
 
Il resto della storia
 
lo puoi leggere sui giornali
 
Divane è figlio del mare
 
Il mare è l’unico padre
 
che potrà mai abbracciare

Il giorno dopo facciamo la conoscenza di Hope, ragazza nigeriana di 22 anni arrivata in Italia da sola e che ora vive nella struttura di Casa Lilith, a Roncosambaccio di Fano. Hope ha una splendida voce e il sogno di diventare cantante. Insieme ad altri giovani stranieri ha costituito una band, che ha chiamato Soul. Nella giornata trascorsa insieme ci ha raccontato la sua storia e ci ha regalato momenti di forte emozione quando nell’atmosfera ovattata di una delle chiese più belle di Fano ha intonato alcuni canti cristiani.

Ho avuto un dono
 
e quel dono mi ha salvata
 
Mi è stato dato un nome
 
e quel nome ha segnato il mio destino
 
Il mio dono
 
è una voce che sa cantare
 
ed emozionare
 
Era tutto ciò che avevo
 
quando non avevo niente
 
Chiudevo gli occhi
 
e cantavo
 
e quel che vedevo
 
non era più
 
l’arida terra ferita
 
e il mio futuro segnato
 
Chiudevo gli occhi
 
e cantavo
 
e quel che vedevo
 
erano porte aperte
 
e possibilità
 
erano giorni pieni di futuro
 
Giorni che potevano diventare
 
anni e vita
 
Non una scadenza
 
da toccare allungando appena la mano
 
E un giorno che cantavo
 
una voce dentro di me
 
ha urlato il mio nome
 
Ha gridato Hope
 
scuotendomi le spalle
 
E la mia voce ha cantato più forte
 
E la Speranza ha spalancato le porte
 
Ho sentito il vento
 
che mi spingeva a volare
 
e il mio canto
 
che lo cavalcava
 
e mi sollevava
 
dall’arida terra ferita
 
Ho continuato a cantare
 
e ad urlare il mio nome
 
anche mentre usavano
 
il mio essere donna
 
E più camminavo
 
E più mi allontanavo
 
E più cantavo
 
Hope
 
Speranza

A Casa Nazareth, spazio gestito dalla comunità di S. Egidio, ci accolgono due famiglie siriane arrivate da Aleppo a Fano tramite il corridoio umanitario. Gli sguardi apparentemente duri, la postura rigida; la richiesta di non essere fotografate. Queste donne ci sembrano chiuse a riccio. È evidente che non abbiano voglia di parlare dei lunghi anni vissuti sotto assedio. Come non capirle. Ma lentamente, a fatica, qualche ricordo supera la cortina delle labbra tese. I giorni senza più lavoro, senza acqua, luce e gas, le bombe che scandivano le ore, gli anni che trascorrevano così, nell’attesa e nella speranza di un ritorno alla normalità. Finché una notte una bomba cade nella camera da letto. Lo shock, i tre mesi in ospedale, la decisione di partire, di non poter attendere oltre, i 20 giorni d’attesa in Libano, prima di raggiungere l’Italia.

Con nostra grande sorpresa, accettano volentieri di incontrarci il giorno dopo per una passeggiata. Tre donne, tre generazioni: nonna, mamma e figlia di appena tre anni, sedute con noi al tavolino di un bar. Gli occhi si sono addolciti, le labbra accennano dei timidi sorrisi. A volte le parole sono superflue. Bastano certi sguardi per comprendere, per comprendersi.

Io non parlo
 
Se mi guardi
 
mi stringo forte alla mia mamma
 
Io ancora non lo so se mi piace stare qui
 
Di bello c’è che non esplodono più le bombe
 
Ma io la notte ancora le sento
 
e capita che faccio la pipì a letto
 
La mamma dice che non importa
 
Mi mette un pigiamino asciutto
 
e mi tiene a dormire fra le sue braccia
 
Ma io le bombe continuo a sentirle
 
e mi sembra ancora di avere la polvere sulla testa, negli occhi, in bocca
 
Sarà per quello che ho sempre i capelli arruffati e il viso pallido
 
Mamma dice che un giorno torneremo ad Aleppo
 
Io non lo so se ci voglio tornare
 
Io non so molte cose
 
perché sono piccola
 
Però neanche gli adulti me lo sanno spiegare
 
perché a casa nostra
 
cadevano dal cielo tutte quelle bombe

La settimana di residenza artistica è giunta al termine. Comincia il lavoro di rielaborazione dell’esperienza vissuta. Ci scambieremo, sia pure a distanza, impressioni, suggestioni e il racconto personale che ognuno di noi ha tradotto attraverso il proprio linguaggio, cercando di far incastrare i diversi tasselli in una rappresentazione artistica condivisa. Personalmente, attraverso la poesia, ho cercato di rendere omaggio a queste giovani donne meravigliose che vengono da lontano, fuggendo da drammi, attraversando altri drammi e, purtroppo, incontrandone altri ancora, una volta giunte nel nostro paese. Donne che, nonostante l’inferno che hanno vissuto, sono ancora capaci di sorridere e sperare in un futuro per sé e per i loro figli.

Loro, per me, rappresentano oggi il simbolo della forza delle donne.

Le opere realizzate dai gruppi partecipanti alle quattro residenze artistiche sono state esposte nei Festival organizzati dalle Associazioni partecipanti, primo dei quali Festivalito de Villaverde a Madrid, il 26 maggio 2018; poi Passaggi Festival a Fano, dal 27 giugno 2018; International Photography Festival a Zagabria dal 14 settembre 2018 e Balkan Photo Festival a Sarajevo, in programma a gennaio 2019.

Un sentito grazie a Giovanni Belfiori, presidente dell’Associazione Passaggi Cultura, per aver voluto incentrare sulle donne la parte italiana del progetto Refest ed anche il tema (“Il paese delle donne”) della sesta edizione di Passaggi Festival della saggistica di Fano, del quale è ideatore e direttore.

Info sul progetto: www.passaggifestival.it

A sinistra gli 8 poeti italiani a Sarajevo; a destra tutti gli artisti al meeting di Sarajevo

Articolo pubblicato il 27 ottobre 2018 su Sentieri Sterrati

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